Mia madre è morta undici anni fa. In tutto questo tempo, quasi ogni giorno, ho pensato a lei e, spesso, mi sono fatta domande su di lei. A molte - credo la maggior parte - non sono riuscita a dare una risposta. Ad altre, ho provato a dare un senso cercando di capire chi fosse mia madre davvero.
Forse ci voleva tutto questo tempo, forse dovevo diventare quella che sono oggi - cinquant'anni compiuti e una buona parte di vita alle spalle - per smettere di giudicarla e iniziare finalmente a vederla.
Io sono nata negli anni Settanta, lei negli anni Quaranta. Due mondi diversi, due modi opposti di intendere il ruolo della donna. Lei ha fatto della famiglia il suo universo, io della mia indipendenza una bandiera. L'ho amata profondamente ma siamo state specie diverse di donne.
Il sacrificio
Crescendo, ho sempre visto mia madre come una donna che aveva "rinunciato a tutto". Niente carriera, niente ambizioni personali, niente spazi suoi. Tutto ruotava intorno all'accudimento di sua madre, del marito, dei figli e della casa. Da ragazza non lo capivo, mi faceva quasi rabbia. Mi sembrava la rappresentazione vivente di tutto quello che non volevo diventare.
Io sarei stata diversa. Io avrei avuto una carriera, avrei viaggiato, avrei fatto le mie scelte senza chiedere niente a nessuno e, soprattutto, io non mi sarei "sacrificata" per nessuno.
Ma a distanza di così tanto tempo, credo di aver capito una cosa: forse non era sacrificio, era scelta. Forse quella donna che vedevo come vittima delle convenzioni sociali era in realtà molto più forte di quanto immaginassi. Tenere insieme una famiglia, crescere figli, mantenere equilibri delicati senza mai mollare richiede infatti una forza titanica. Una forza che io, con tutti i miei discorsi sull'indipendenza, non sono sicura di avere.
La comprensione
C'è qualcosa che accade dopo i quarant'anni nel rapporto con la propria madre. Se lei c'è ancora, spesso è il momento in cui finalmente cominciamo a vederla come persona, non solo come madre. Se non c'è più, come nel mio caso, inizia una forma diversa di dialogo, fatto di memorie che si ricompongono e di comprensioni che arrivano in ritardo.
Ma in questa riflessione c'è un'altra dimensione che mi tocca da vicino: io non ho figli. E a volte, pensando a mia madre, mi chiedo che tipo di madre avrei potuto essere io, soprattutto considerando che, se avessi avuto una figlia, sarei stata una madre "attempata" - una di quelle donne che fanno figli dopo i quaranta.
Mi domando come avrebbe vissuto mia figlia la nostra differenza generazionale. Avrebbe avuto la stessa rabbia che ho avuto io verso mia madre? Avrebbe biasimato le mie scelte lavorative come io giudicavo la dedizione totale di mia madre alla famiglia? O forse avrebbe pensato che fossi troppo concentrata su me stessa, troppo poco disponibile?
Immagino conversazioni mai avute, scontri mai vissuti. Immagino una figlia che forse non mi avrebbe capita come io non riuscivo a capire la mia e mi avrebbe magari valutata severamente perché, amandola come credo solo un figlio si possa amare, avrei certamente sbagliato. Come tutte le madri, del resto.
Gli insegnamenti invisibili
Eppure, mia madre mi ha insegnato cose che non sapeva di insegnarmi. La resilienza travestita da normalità. L'arte di resistere, anche quando tutto sembra crollare. Il senso della fatica che tanto mi ha sostenuto in certi momenti difficili della mia vita.
Mi ha insegnato che esistono molti modi di essere donna, e che il mio - fatto di lavoro e indipendenza - non è necessariamente superiore al suo. È solo diverso. Mi ha insegnato che l'amore non sempre si esprime a parole. A volte è nel silenzio di chi tiene duro, nella costanza e nella forza di chi c'è sempre.
Lezioni che ho capito solo diventando adulta, solo arrivando a quell'età in cui inizi a guardarti indietro e a mettere in prospettiva quello che fino a quel momento hai guardato troppo da vicino.
L'eredità che non sapevo di aver ricevuto
Oggi riconosco che ho avuto un privilegio che lei non ha avuto: quello di poter scegliere. Lei è cresciuta in un'epoca in cui le possibilità per una donna erano limitate. Io sono cresciuta in un mondo e in un tempo in cui ho potuto permettermi di dire no, di fare esperienze e di cambiare idea.
Ma questo privilegio esiste anche grazie a donne come lei, che hanno educato figlie convinte di poter fare tutto. Figlie il cui "femminismo" è costruito sulle fondamenta silenziose di madri premurose con la gonna al ginocchio e la messa in piega al venerdì pomeriggio.
E al tempo stesso, a cinquant'anni, mi ritrovo a fare cose che faceva lei, quelle che da giovane giudicavo banali o fastidiose. Ho integrato nella mia vita pensieri e valori che ritenevo avrei rifiutato sempre e per sempre con convinzione: uno per tutti, il matrimonio.
Forse questo è quello che succede quando raggiungi una certa età: smetti di definire la tua identità in opposizione a tua madre e inizi a riconoscere quello che di lei vive in te.
Mia madre non c'è più da undici anni, ma la sento ancora. Per certi versi e in tanti sensi è stata una guerriera solitaria, ma non lo comprendevo. Oggi per questo la stimo, la ringrazio e continuo a onorare la sua memoria.
Donne che si passano il testimone
Ogni generazione di donne cresce pensando di dover correggere gli errori di quella precedente. Noi, figlie degli anni Settanta, dovevamo essere più libere delle nostre madri. È un meccanismo naturale, necessario. Ma forse, ad una certa età, possiamo permetterci di essere più generose nel giudizio.
E soprattutto, ogni generazione porta avanti il testimone in modo diverso. Mia madre l'ha fatto attraverso la maternità, dedicandosi completamente alla famiglia. Io l'ho fatto attraverso altre strade, altri contributi, altre forme di cura.
Mia madre ha fatto del suo meglio in un'epoca che offriva poche alternative. Io sto facendo (spero) del mio meglio in un'epoca che offre persino troppe scelte.
E sono convinta che alla fine questo sia l'insegnamento più grande: non esiste un modo giusto di essere donna. Esiste solo il coraggio di essere sé stesse, con i limiti e le possibilità del proprio tempo.